Chi “È pronto”? Dal Coming Out Day al Diversity Management
LGBTQIA.
No, non è la nuova social media campaign di IKEA.
Questo è la sigla universalmente utilizzata nella collettività per riferirsi a persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, intersessuali e asessuali.
Passato il Coming Out Day dello scorso 11 ottobre, cosa resta dei messaggi di inclusione e delle policy di diversity management nella quotidianità dei brand?
La lista dei brand impegnati in campagne e progetti si allunga ogni giorno, dai big come Apple che ha prodotto per il mese del Pride degli Apple Watch dal cinturino arcobaleno, a H&M che ha lanciato la collezione Arcobaleno, a catene di supermercati come Coop che ha pubblicato uno spot a tema LGBT, così come Netflix, Disney, Amazon, Google e il recentissimo spot di GCDS per Barilla con Sophia Loren.
Dopo il green washing e il pink washing, sembra giunta l’era del rainbow washing, con una corsa quasi spasmodica a dichiarare “siamo LGBT friendly”.
Come vivono però, gli utenti, questa corsa dei brand a posizionarsi a favore di Diversity e Inclusion? Di certo non gli basta più una bella campagna o un messaggio forte; vogliono coerenza, continuità e concretezza, ovvero vogliono che i brand che prendono posizione vivano i valori che comunicano nella loro quotidianità, vogliono brand in cui riconoscersi e con cui condividere un modello di vita e di valori. E ancora vogliono potersi schierare al loro fianco e rinnovare la loro fiducia ogni giorno durante il processo di scelta, acquisto e fidelizzazione.
Basterà quindi un bellissimo spot con la condivisione di un piatto di pasta al sugo, per dimenticare il “mai con una famiglia omogenitoriale” di qualche anno fa per Barilla, sì o no? Qual è il livello di fiducia che siamo disposti a dare a un brand che si posiziona o ancora ri-posiziona a favore della diversità e dell’inclusione a tutti i livelli utilizzando una campagna di comunicazione?
Certamente siamo più orientati a dare credito a chi non arriva oggi a questo posizionamento senza uno storico, ma da anni si schiera e condivide cause e progetti in questa direzione, come nel caso di IKEA e i recenti #fateloacasavostra e #ComingOutOfTheCloset in Italia, o con la campagna canadese per il Pride 2018 dove un gruppo di Drag ha reinterpretato attraverso gli outfit alcuni prodotti del marchio svedese. Allo stesso tempo cerchiamo sempre di più di andare oltre la facciata per capire se i brand stanno strumentalizzando una minoranza per fini di marketing, celando la mancanza di diritti sociali e facendoci concentrare piuttosto su quelli civili, o stanno invece amplificando un messaggio a sostegno di quella minoranza.
È il caso della polemica nata per Amazon, che ha donato ai propri ambassador le magliette arcobaleno “Glamazon” al pride di Milano, ma ha in atto una polemica tra i propri dipendenti in relazione a turni di lavoro insostenibili, o della squadra del Manchester City che da anni si schiera con i diritti civili, ma è stata rilevata nell’ormai lontano 2008 dallo sceicco Mansour, degli Emirati Arabi Uniti, dove al tema LGBT non solo non è trattato ma anzi l’omosessualità è ancora perseguitata legalmente.
È anche vero che in Europa e a livello global sono ormai tanti i casi studio di aziende che nel loro quotidiano hanno integrato policy di D&I (Diversity and Inclusion) con risultati molto interessanti in termini di qualità dell’ambiente di lavoro, risultati dei team misti, e – udite udite – in termini di crescita del fatturato. Sono aziende che ogni giorno comunicano prima internamente e poi al mondo il loro modello di inclusione con percorsi e processi di Employer branding, modelli di Welfare aziendale e di Internal Branding & Communication che creano la prima vera community del brand: i propri dipendenti.
In Italia abbiamo PARKS – Liberi e Uguali, “un’associazione senza scopo di lucro che ha tra i suoi soci esclusivamente datori di lavoro creata per aiutare le aziende socie a comprendere e realizzare al massimo le potenzialità di business legate allo sviluppo di strategie e buone pratiche rispettose della diversità”; dal 2013 ogni due anni realizza l’LGBT Diversity Index per aziende italiane e multinazionali operanti in Italia, che indaga e misura il successo delle aziende nel raggiungimento dell’obiettivo strategico di creare ambienti di lavoro rispettosi e inclusivi per i propri dipendenti lesbiche, gay, bisessuali e transessuali/transgender. La principale evidenza che emerge è che ancora poche aziende partecipano a queste indagini (61 nel 2018) ma che il 64% di queste ha una policy aziendale per la non-discriminazione formalizzata. Ormai più del 60% delle aziende partecipanti ha un manager per la diversity e adotta percorsi di formazione su questi temi (46%), ma appena si esce dalle policy base, come ad esempio integrando i percorsi con linee guida sulla transizione, il 66% delle realtà risponde che non le possiede, e alla domanda se i fornitori di cui si servono vengono selezionati perché rispettano le stesse politiche di inclusione, il 59% risponde di no, riportando di nuovo l’analisi sulla dicotomia interno-esterno.
Il marketing e la comunicazione restano quindi gli strumenti perfetti per arrivare a tutti, e per comunicare valori e messaggi importanti, ma la differenza continuerà secondo noi, a farla una strategia che nasce all’interno della azienda e del brand, che cresce con lui, e che forte di esperienza maturata nel quotidiano diventa un messaggio forte verso l’interno e verso l’esterno.
Happy Minds in questo senso è pronta a vivere diversità e inclusione dall’interno, mettendo in circolo menti, idee e progetti felici per aziende che sono pronte a condividere questo percorso. E la tua azienda… è pronta?
* Dati e riferimenti tratti da: PARKS – LGBT Diversity Index 2018
Cecilia Pedroni